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  • Avvocati in Italia: troppi e a basso reddito?

    «In Italia, oggi, i professionisti legali sono in numero enormemente superiore ai bisogni sociali» scriveva Pieroavvocati in italia Calamandrei nel 1921. Dopo quasi un secolo le parole del giurista fiorentino tornano a essere più che mai attuali. La Corte di Cassazione solo qualche anno fa, nel 2011, per ogni giudice rilevava 32 avvocati, contro gli 8 della Francia e i 5 dell’Inghilterra. Allo stesso modo risultava anomalo il rapporto avvocati-abitanti: 332 legali per 100 mila cittadini, contro i 75 della Francia. Spesso l’Europa e l’Antitrust hanno sostenuto che in un libero mercato dei servizi la moltiplicazione degli operatori è sempre un dato positivo a favore della concorrenza. Nel caso della classe forense, però, l’elevato numero di professionisti grava sul già pesante bilancio della giustizia italiana, che, con più di sei milioni di processi civili pendenti e oltre tre nel penale, non riesce a far fronte al tasso di litigiosità degli italiani. Gli avvocati, infatti, da una parte offrono un servizio al cittadino, ma dall’altra ne richiedono uno allo Stato. In occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2011 il primo presidente della Corte di Cassazione Ernesto Lupo, a tale proposito, ha detto: «Si rileva un eccesso di richiesta di giustizia rispetto alle reali capacità di risposta, dovuto in parte a nuove dinamiche sociali (in materie quali l’antitrust, la tutela della privacy, nuove figure di rapporti di lavoro, operazioni finanziarie e assicurative), e in parte a sempre più diffuse situazioni di abuso del processo, per il raggiungimento di scopi diversi dalla soluzione della lite, in particolare con finalità di dilazione dei tempi nell’adempimento di obbligazioni. Si assiste, quindi, con sempre più allarmante frequenza, al fenomeno della cosiddetta domanda anomala di giustizia, ossia di un’abnorme reiterazione di iniziative giudiziarie per questioni di carattere seriale e di modesto valore economico, che intasano gli uffici giudiziari di primo grado, impegnando, in modo sproporzionato all’interesse tutelato, le energie di giudici e di personale amministrativo e contribuendo in modo determinante alla dilatazione dei tempi medi di durata dei processi». Secondo il magistrato nel distorto utilizzo della funzione giurisdizionale rispetto alle sue effettive finalità». Il carico dei processi pendenti è condizionato, continua Lupo nella sua relazione, anche «dall’insufficiente attività di filtro da parte della classe forense, dovuta soprattutto all’eccessivo numero di avvocati». E le cose di anno in anno peggiorano. Secondo il rapporto della Commissione europea per l’efficacia della giustizia (CEPEJ), nel 2008 in Italia per ogni giudice ci sono 26,4 avvocati, in Francia 7,1 e in Inghilterra 3,2. Nel 2010 a fronte di un indice di 8,2 per la Francia e 5 per l’Inghilterra, si riscontra un aumento di ben 6 punti, sino al 32,4, per l’Italia. Tale situazione non spinge a favore di pratiche conciliative, ma piuttosto verso una dilatazione dei tempi processuali e un inasprimento del contenzioso, come nel caso dei giudizi di equa riparazione.«l’illusione di un accesso del tutto indiscriminato al servizio reso dall’amministrazione della giustizia si traduce in una restrizione del servizio stesso per chi ne ha effettivamente bisogno e comunque con i suoi circa 30 mila partecipanti ogni anno, l’esame forense è certamente quello più affollato fra le prove di abilitazione. A rendere così ambita la professione è sicuramente la versatilità lavorativa di un titolo che, anche quando non utilizzato per la libera professione, resta di grande aiuto nei concorsi pubblici e nelle selezioni delle aziende private. Anche il grande schermo ha celebrato la professione. L’avvocato Joe Miller (Denzel Washington) che aiuta il collega Andrew Andy Beckett (Tom Hanks) a vincere la battaglia legale contro il suo licenziamento perché affetto da Aids, in un film del 1993 come Philadelphia; oppure la testarda Erin Brockovich (che ha dato il titolo all’omonimo film del 2000), segretaria di uno studio legale, che permette al suo avvocato di vincere una causa contro la Pacific Gas andElectric Company ottenendo per i 634 querelanti indennizzi per 333 milioni di dollari (più un assegno di 2 milioni per sé). Anche quando il legale non è esattamente un eroe, come nel caso dell’Avvocato del diavolo, quella che emerge è l’immagine di un professionista con in mano le chiavi per aprire tutte le porte del successo (…«la legge, bambino mio,» dice il vecchio John Milton al giovane Kevin Lomax «ci dà accesso a tutto quanto. È il supremo biglietto omaggio. È il nuovo sacerdozio, bambino. Tu lo sai che ci sono più studenti alla facoltà di legge di quanti avvocati popolano la Terra!»). E non si può negare l’influenza che queste pellicole di grande successo (periodicamente messe in onda sulle tv nazionali) possono aver avuto nei confronti di molti giovani. Anche se molto spesso l’impatto con la realtà non è quello raccontato nei film. Un tirocinio senza compenso Ufficialmente il tirocinio (18 mesi) consiste «nell’addestramento, a contenuto teorico e pratico, del praticante avvocato finalizzato a fargli conseguire le capacità necessarie per l’esercizio della professione e per la gestione di uno studio legale, nonché a fargli apprendere e rispettare i principi etici e le regole deontologiche. Può essere svolto contestualmente ad attività di lavoro subordinato pubblico e privato, purché con modalità e orari idonei a consentirne l’effettivo e puntuale svolgimento e in assenza di specifiche ragioni di conflitto di interesse». In realtà le cose non stanno sempre così. Da ciò che prescrive la legge ci si aspetterebbe un rapporto all’interno del quale il dominus spiega i segreti del mestiere e il giovane praticante apprende e piano piano si inserisce nell’attività di studio. Invece, più spesso la cronaca riportata dai diretti interessati è molto diversa: giornate lavorative di 12 ore, faldoni di carte da fotocopiare, mai nessuna gratifica, svolgimento di funzioni di segreteria e via dicendo: il sito larepubblicadeglistagisti.it offre una casistica più che esaustiva. Sempre a norma di legge al praticante avvocato è dovuto il rimborso delle spese sostenute per conto dello studio presso il quale svolge il tirocinio,mentre un compenso per la mera attività può essere corrisposto in base al contributo dato all’attività dello studio. Le cose cambiano da città a città. Gli studi legali d’affari olaw firm, concentrati sostanzialmente a Roma e Milano, pagano i praticanti. Gli studi mediopiccoli, soprattutto fuori dalle grandi città, poco o nulla. Un gruppo di praticanti ha voluto dimostrare, con un sondaggio online fra giovani aspiranti avvocati, la precarietà della loro condizione: 9-10 ore al giorno di lavoro a fronte di una retribuzione nulla o irrisoria (la media del compenso dei praticanti si aggira intorno ai 200-300 euro al mese, talvolta corrisposti in nero), per svolgere spesso compiti poco gratificanti. Con la differenza che il praticante non ha un contratto e quindi nemmeno le garanzie di un qualunque dipendente (ferie, permessi, periodi di malattia retribuiti, un salario minimo). Una situazione di demansionamento che non di rado continua anche dopo aver superato l’esame di Stato. Il crescente numero di legali a basso reddito non poteva sfuggire alla Cassa forense (l’ente di previdenza e assistenza degli avvocati, privatizzato nel 1994), che non a torto li ha definiti «proletari dell’avvocatura». C’è una fetta di iscritti (il 37,5%), infatti, che non arriva ai 16.000 euro l’anno. E ci sono addirittura 56 mila legali sotto i 10.300 euro. Ad alzare decisamente la media sono gli avvocati d’affari, quelli specializzati e quindi con un mercato di riferimento meno soggetto alle cicliche congiunture economiche e quelli con almeno venticinque anni di carriera alle spalle, con clientele ormai consolidate, che avvertono il peso della crisi o il sovraffollamento nella professione solo limitatamente. Il reddito medio per gli avvocati risulta in questi casi di 47.560 euro.Una cifra di tutto rispetto, soprattutto di questi tempi. Peccato che sia sostanzialmente uguale (euro più euro meno) al reddito percepito nel 1990 (rivalutato a oggi). Ogni anno l’istituto pensionistico di categoria pubblica le statistiche sul reddito professionale Irpef e sul volume d’affari Iva dichiarato dagli iscritti. Dall’analisi dei dati risulta che la ricchezza prodotta dall’avvocatura nell’anno 2011 ammontava a 7639 milioni di euro. Dopo anni di crescita abbastanza sostenuta (13,7% nel 2004, 11,7% nel 2006 e 10,7% nel 2007), ha mostrato un forte rallentamento: (del 3,5% nell’anno 2011, del 2,4% nel 2010, ma al di sotto del 2% negli anni 2008 e 2009). Dall’analisi dei dati risulta, pertanto, una situazione in cui il reddito pro capite prodotto ha interrotto, ormai per quattro anni di seguito, la sua crescita. Una delle ragioni, forse la più percepibile insieme alla recessione economica in atto da qualche anno, va ricercata sicuramente nell’elevato numero di accessi alla professione. Passando ad analizzare l’evoluzione del volume d’affari si osserva come nel 1990 (anno preso come riferimento) i 45 mila iscritti alla Cassa forense dichiaravano un monte di quasi 2 miliardi di euro (1.833.971.121 euro), ovvero 76.594 euro (rivalutati al 2011) a testa. Nel 2011 i 170 mila iscritti invece dichiaravano qualcosa come 11 miliardi e mezzo (11.544.475.249 euro), ovvero 71.868 euro (rivalutati al 2011) a testa: meno di vent’anni fa. Oggi, a soffrire di più sono quegli under 40 abilitati negli ultimi dieci anni che, per quanto strano possa sembrare all’interno di una profes http://crisiesviluppo.manageritalia.it/2014/09/avvocati-in-italia/sione nobile, fanno anche loro fatica ad arrivare alla fine del mese.

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